Chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio
José Mourinho

Il conflitto mondiale bellico imperversa ancora su gran parte dell’Europa quando, sul finire del 1943, nasce la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. A guidare la liberazione dall’occupazione nazi-fascista è Josip Broz Tito che, con la nascita del nuovo stato, diviene primo ministro e Maresciallo di Jugoslavia. Grazie alle battaglie vinte contro gli invasori gode di un enorme popolarità. Il suo sogno è quello di riunire sotto un’unica bandiera tutti gli slavi del sud. Uno stato socialista autogestito, che si distanziasse dall’URSS e godesse di una certa autonomia economica. Seppur all’apparenza simili, però, i popoli della Jugoslavia hanno profonde differenze culturali e linguistiche. Così, il Maresciallo Tito conia un’espressione per descrivere la Repubblica:

La Jugoslavia è formata da sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un partito

Nel 1948 la selezione balcanica di calcio che partecipa alle Olimpiadi di Londra conquista la medaglia d’argento: da quel momento l’entusiasmo popolare verso questo sport cresce esponenzialmente. Squadre come il Partizan Belgrado, la Stella Rossa, la Dinamo Zagabria e l’Hajduk Spalato iniziano a diventare famose anche a livello internazionale, esportando il calcio balcanico per il continente. Ben presto il pallone diventa anche un modo per mantenere la propria identità culturale. Così nel 1950 a Spalato nasce la Torcida, la più antica tifoseria organizzata d’Europa, con un preciso orientamento politico di estrema destra. Da allora il tifo calcistico e la politica iniziano a mischiarsi sempre di più. E infatti, proprio dagli stadi di Zagabria, nel 1971, nasce quella che sarà poi conosciuta come la ‘Primavera Croata’ e che porta Tito a modificare la Repubblica Federale in uno Stato di Repubbliche Confederate.

La mattina del 4 maggio 1980 a Lubiana si spegne il Padre della patria. In quello stesso giorno, a Spalato, è in programma la partita tra l’Hajduk, la cui tifoseria è cattolica e di estrema destra, e la Stella Rossa, la squadra del partito comunista. I trentacinque mila che affollano lo stadio si stringono accorati in memoria del leader appena scomparso, cantando l’inno “Compagno Tito ti giuriamo fedeltà”. Morto l’unico in grado di tenere unito un mosaico così vario di identità e culture, i nazionalismi iniziano a ribollire ancor di più. Ad acquistare sempre più potere è il serbo Slobodan Milosevic, che inizia ben presto una campagna d’odio con l’obiettivo di porre la Serbia a capo della federazione. Il clima diventa sempre più infuocato e le tifoserie si allontanano dal calcio, per diventare sempre più politiche. È proprio in questo decennio che, paradossalmente, si sta formando l’undici più forte della storia jugoslava: Savicevic, Mijatovic, Boban, Mihajlovic, Stojkovic, Pancev, Jugovic, Suker, Boksic, Stimac, Jarni. Un gruppo di giovani stelle che per l’ultima volta fece sentire gli jugoslavi come un popolo unito sotto un’unica bandiera.

Il paese è ormai intriso di nazionalismo. Il 19 marzo 1989 si gioca la partita tra Partizan Belgrado e Dinamo Zagabria. I croati vincono nella capitale serba e tra le tifoserie volano parole grosse, sia allo stadio che nelle strade. È un’avvisaglia di quello che succederà solo un anno più tardi. È in questo clima che si arriva alla Battaglia del Maksimir, il 13 maggio 1990. La partita è Dinamo Zagabria contro Stella Rossa, ma in realtà è Croazia contro Serbia. Tra le tifoserie non corre da tempo buon sangue: da una parte ci sono gli ultras della Dinamo, i Bad Blue Boys (nome ispirato ad un film di Sean Penn del 1983), e dall’altra i Giovani Coraggiosi della Stella Rossa, che nel frattempo erano diventati un vero e proprio plotone militare. È una contrapposizione totale, non più solo calcistica, ma nazionale, religiosa e politica.

Una settimana prima della partita, il 6 maggio, a dieci anni esatti dalla morte del Maresciallo Tito, si erano tenute le prime elezioni libere dal dopoguerra. La vittoria era andata alla forza nazionalista ed indipendentista dell’HDZ (Unione Democratica Croata), guidata da Franjo Tudjman, che diventerà in seguito il primo presidente della Repubblica di Croazia. In un clima politicamente rovente si arriva alla partita Dinamo Zagabria – Stella Rossa. Il calcio è ormai in secondo piano, anche perché la partita è ininfluente ai fini della classifica. La Stella Rossa è già campione, ma i giocatori croati vogliono onorare la sfida, anche perché battere i serbi è comunque una grande soddisfazione. Già in direzione dello stadio, i tifosi di Belgrado devastano il treno che li stava portando a Zagabria e successivamente si accaniscono sulle strade e i negozi che incontrano lungo la strada che dalla stazione percorrono in direzione del Maksimir.

Stadio Maksimir, 13 maggio 1990. / Archivio Oslobodenje

Un’ora prima della partita, ci sono già ventimila tifosi a riempire lo stadio. Intorno alle ore 18, poco prima del calcio d’inizio, scoppia la scintilla: i tifosi della Stella Rossa cominciano a staccare i cartelloni pubblicitari posti sulla gradinata, poi si passa ai seggiolini, che lanciano in direzione dei tifosi croati al grido di “Uccideremo Tudjman”. È l’inizio del caos, subito dopo i serbi scavalcano una ringhiera ed iniziano a picchiare selvaggiamente un piccolo gruppo di tifosi della Dinamo. Gli scontri vanno avanti circa un quarto d’ora, senza che la polizia, posta sotto l’influenza serba, intervenga. A quel punto, i Bad Blue Boys, vedendo l’indifferenza delle forze dell’ordine, non si sentono tutelati e sfondano la ringhiera della tribuna Nord. Il trattamento è ben diverso da quello riservato ai tifosi della Stella Rossa: alcune centinaia di poliziotti si lanciano contro gli ultras croati. La battaglia si sposta improvvisamente dagli spalti al campo. Per arginare la furia dei tifosi della Dinamo, che sentono di aver subito una repressione unilaterale, vengono mandati sul terreno di gioco anche i camion dei pompieri che cercano di disperderli con getti d’acqua. La partita è ovviamente sospesa. I giocatori delle due squadre, nel frattempo scesi in campo per il riscaldamento, scappano negli spogliatoi. Non tutti, però. Alcuni giocatori della Dinamo restano in campo e tra questi c’è Zvonimir Boban, il giovanissimo capitano.

Per la maglia della Jugoslavia ho sempre dato il massimo, ma per quella della Croazia sarei pronto a morire

Zvonimir Boban

Una frase che Boban pronuncia nel corso di un’intervista e che passerà poi alla storia. Zvonimir è un convinto sostenitore della causa d’indipendenza croata, così quando durante gli scontri vede un poliziotto manganellare un giovane tifoso della Dinamo, non ci pensa due volte e si getta nella mischia. «Non ci vidi più. Mi avventai su un poliziotto e gli gridai “Vergognatevi. State massacrando dei bambini”. Lui mi colpì due volte urlando: “Brutto figlio di puttana. Sei come tutti gli altri” – racconterà poi il giocatore – A quel punto ebbi una reazione d’istinto. Gli fratturai la mascella con una ginocchiata». A quel punto, diversi colleghi dell’agente ferito si lanciano verso Boban, che viene circondato e difeso da alcuni tifosi e dirigenti della Dinamo. Non c’è più niente che si possa fare per calmare gli animi: gli ultras croati, muniti di coltelli e pietre, sfondano le ultime recinzioni e si dedicano anima e corpo alla battaglia contro le forze di polizia. Gli scontri vanno avanti fino a tarda notte, con un bilancio finale di 59 feriti tra i tifosi, 79 fra gli agenti, 17 tram e decine di auto devastate e oltre 140 arresti.

Il calcio di Boban al poliziotto. 13 maggio 1990, Zagabria.

In poche ore la foto del capitano della Dinamo Zagabria che colpisce con una ginocchiata al volto il poliziotto fa il giro del mondo. I croati lo innalzano ad eroe nazionale, mentre i serbi lo bollano come ultra-nazionalista. La Federcalcio jugoslava gli infligge una squalifica di sei mesi, costringendolo a saltare il Mondiale di Italia ’90. A distanza di vent’anni Boban dichiarerà che “quel calcio fu una reazione normale che qualsiasi essere umano avrebbe avuto. Si trattava della libertà in lotta contro il Regime”.

Nessuno per anni si è però preoccupato di chi fosse il poliziotto colpito. Si scoprì poi che Refik Ahemetović era un ragazzo bosniaco e musulmano, che in un’intervista perdonò pubblicamente Boban per il suo gesto, dichiarando che quelli erano giorni in cui le persone erano accecate. In sede storica quel 13 maggio 1990 è indicato come l’inizio delle guerre balcaniche, che dureranno cinque anni e che porteranno alla morte di circa 140mila persone. La disgregazione della Jugoslavia è iniziata. Gli effetti di quella partita si vedono ancora oggi fuori dallo stadio Maksimir, dove campeggia una statua raffigurante un gruppo di soldati con la scritta: Ai fan del club, che hanno iniziato la guerra con la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990.

Gli scontri allo Stadio Maksimir, 13 maggio 1990.

Il 26 settembre 1990 si gioca la prima giornata dell’ultima Prva Liga, il campionato jugoslavo. A Belgrado si affrontano il Partizan e la Dinamo. La squadra serba va in vantaggio di due reti, ma lo sport ha ormai perso la sua funzione. I tifosi croati invadono il campo ed inscenano una manifestazione per chiedere la nascita della Federazione croata di calcio. Riescono ad ammainare la bandiera della Jugoslavia dal pennone dello stadio, issando quella della Croazia. La Jugoslavia sta definitivamente smettendo di esistere. Al termine del campionato 1990-1991 le squadre croate e slovene abbandonano il torneo e lo stesso fanno quelle macedoni e bosniache al termine della stagione successiva. Il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia dichiarano l’indipendenza, dando così il definitivo via alla Guerra civile che accompagnerà il paese per cinque lunghi anni. Il buio cala sul paese e inevitabilmente sullo sport.

Si attende fino al 18 agosto 1999 per rivedere sullo stesso campo una squadra serba ed una croata. Il teatro è il Marakana di Belgrado per un incontro valevole per la qualificazione agli Europei del 2000. Emilio Marrese, inviato di Repubblica, nella cronaca della partita scrive che all’intonare dell’inno nazionale della Croazia “gli undici giocatori tennero per due minuti tutti la mano sul cuore, e i cinquantamila serbi in tribuna il dito medio alzato”, a testimoniare che il calcio di Boban non è stato dimenticato.

Jugoslavia – Croazia. 18 agosto 1999, Stadio Marakana di Belgrado.