a cura di Diego Begnozzi e Andrea Sciotto
Il 1° aprile 1992 lo Stato del New Jersey approvò una legge che incrementò il salario minimo da 4,25 (il livello minimo fissato a livello salariale) a 5,05 dollari all’ora.
L’episodio diede agli economisti un’occasione unica di verificare sul campo se la teoria macroeconomica diffusa – cioè che l’aumento del salario minimo provoca disoccupazione (ne abbiamo parlato qua!) – stesse in piedi.
Per verificare (o confutare la teoria) Alan Krueger e David Card intervistarono oltre 400 fast food, in New Jersey e nella vicina Pennsylvania, prima e dopo l’entrata in vigore del nuovo salario minimo.
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L’idea di base dell’esperimento era semplice: se l’aumento del salario minimo crea disoccupazione, il tasso di disoccupazione in New Jersey aumenterà più di quanto non succederà in Pennsylvania, dove tutto rimane immutato. New Jersey e Pennsylvania sono due Stati vicini e relativamente simili e i fast food hanno l’eccellente proprietà di essere uguali in tutto il mondo, quindi non c’erano fattori esterni che “sporcavano” i risultati.
Nel 1993 sono stati pubblicati i risultati: il salario minimo non genera disoccupazione, ma proprio per niente. Anzi: rispetto ai fast food in Pennsylvania, quelli nel New Jersey aumentarono l’occupazione del 13%. Dal 1993 ad oggi il paper di Krueger e Card è stato citato in altri 3.438 lavori, dando il via ad un filone di pensiero macroeconomico che mette in dubbio uno dei fondamenti del pensiero liberale.
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Il salario minimo, comunque, per quanto chimera degli economisti, non era un costrutto teorico, ma una realtà in diversi Paesi: la Nuova Zelanda lo introdusse addirittura nel 1894, gli Stati Uniti nel 1938, la Spagna nel 1963, i Paesi Bassi nel 1969, la Francia nel 1970, il Portogallo nel 1974, la Grecia nel 1991, il Regno Unito nel 1999 e la Germania nel 2015. In Europa, attualmente, gli unici Paesi senza un salario minimo sono Italia, Cipro, Danimarca, Finlandia e Svezia.
Capiamoci, però: un salario minimo non è a prescindere un bene. Un salario minimo ben strutturato è un bene (per i lavoratori, che non si troveranno costretti ad accettare contratti in cui sono pagati cinque goleador all’ora; per gli industriali, perchè la gente che guadagna cinque goleador all’ora non compra niente). Un salario minimo mal pensato può essere dannoso: se, ad esempio, fosse troppo basso potrebbe spingere al ribasso i salari in generale. Se fosse troppo alto ci sarebbero delle classi di lavoratori – sottoqualificati, o con delle mansioni in un certo grado sostituibili da macchine – che verrebbero completamente tagliate fuori dal mercato.
In Italia, ora, il salario mediano è 11,2€ all’ora, anche se con delle differenze a seconda dell’area geografica (11,9€ nel Nord-ovest, 10,2€ al Sud) e della classe dimensionale dell’azienda (10,1€ per le aziende con meno do 10 dipendenti, 13,1€ per quelle con più di 250 dipendenti).
Ad oggi esistono sul tavolo due proposte di legge sull’introduzione del salario minimo, una sottoposta dal Ministro del Lavoro Nunzia Catalfo (M5S) e una dal Senatore Tommaso Nannicini (PD). Entrambe le proposte sono state presentate il 2 luglio 2019. Si doveva parlare di salario minimo nella Legge di Bilancio 2019 ma non se n’è fatto niente e ora l’attenzione politica è su altri temi.
Le prima proposta introdurrebbe un salario minimo fissato a 9 €/ora (lordi, cioè ancora da tassare), la seconda estenderebbe i valori minimi previsti dai Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro anche a i lavoratori che non rientrerebbero nelle fattispecie previste (ad esempio, perchè non assunti con un contratto “normale” ma a partita IVA, a progetto, o con il neoschiavismo dei contratti dei rider).
La proposta del Ministro Catalfo non ha trovato il benestare del grande pubblico – nè sul fronte imprenditoriale, nè su quello sindacale.
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L’opposizione di Confindustria è facilmente spiegabile: un salario minimo fissato all’80% del salario mediano è alto (in Germania siamo al 48,4%, nel Regno Unito al 58,1%, in Spagna al 46,6%). La combinazione salario alto + tassazione sul lavoro non incontra il favore degli industriali, in maniera poco sorprendente.
Perchè anche i sindacati avversano il salario minimo? Per capirlo bisogna addentrarsi (poco) nella complessa giungla della giurisprudenza in materia di lavoro.
In origine, i dipendenti in Italia ricevevano una retribuzione fissata da determinati Contratti Collettivi Nazionali del Lavoro (CCNL), stipulati fra associazioni di lavoratori (cioè i sindacati) e associazioni di datori di lavoro, singolarmente o a livello di settore. L’idea originaria è di dare la possibilità ai lavoratori di sedersi al tavolo delle trattative con un po’ di potere contrattuale: non è il singolo lavoratore che discute, ma la totalità, unità.
Passano gli anni e succedono due cose:
- il lavoro dipendente non è più l’unica forma contrattuale esistente – anzi, se hai meno di 35 anni è più probabile che tu sia un co.co.co, una partita IVA, un lavoratore a chiamata, o una creativa forma legislativa
- il sindacato ha smesso di essere una struttura a tutela dei lavoratori ma è diventata una struttura a tutela dei pensionati (la maggioranza degli iscritti a sindacati sono pensionati)
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Un salario minimo restringe, e di molto, il peso dei sindacati: non sono più loro ad avere il “monopolio” della tutela dei lavoratori (o, almeno, della tutela retributiva) e i CCNL sarebbero, parzialmente, depotenziati. Da questo nasce il mancato giubilo nei confronti della proposta del Ministro Catalfo.
Nella proposta di Nannicini, invece, invece, i sindacati continuano ad avere un ruolo importante e i CCNL continuano ad essere la base del sistema contributivo.
Si apre però un tema importante – ed è un tema che dovrebbe toccare da vicino ogni under-35, ma nessuno è ancora sceso in piazza – legato alla rappresentanza: se i CCNL diventano la base della tutela retributiva anche per i lavoratori con contratti da terzo mondo, e se i CCNL sono trattati dai sindacati, i lavoratori con contratti da terzo mondo non dovrebbero entrare nei sindacati?
In Italia non c’è mai stato bisogno di occuparsi di salario minimo perchè, grazie ai sindacati, i lavoratori dipendenti erano tutelati (o, almeno, più tutelati che in altre parti del mondo). Da quando si è smesso di assumere la gente come dipendente, passando a forme contrattuali più creative, si è aperto il vaso di Pandora: se hai un sistema basato sulla rappresentanza, chi tutela chi è al di fuori dei rappresentati? Forse è veramente il momento di parlare, seriamente, di salario minimo per tutti.