Kaepernick è un altro di quegli atleti che ha segnato una generazione e la gente ripenserà alla storia con questi personaggi dello sport. Non solo parleranno delle sue prestazioni in campo, ma di quanto sia stato importante fuori dal campo. Come abbiamo fatto con Muhammad Ali. Lo chiamano il campione del popolo. Non credo che nessuno lo chiami il campione del popolo per quello che ha fatto sul ring.
LeBron James

Il rapporto tra l’NBA ed il presidente Donald Trump non è mai stato idilliaco, fin dai tempi in cui i Golden State Warriors si rifiutarono di andare alla Casa Bianca dopo aver conquistato l’anello nel 2017, interrompendo così una tradizione lunga 160 anni. Curry e compagni scelsero di trascorrere la giornata in compagnia di alcuni bambini presso un museo di storia afro-americana: una scelta inequivocabilmente politica. La squadra di San Francisco aveva rifiutato l’invito del presidente a causa del trattamento riservato da The Donald e dalla NFL a Colin Kaepernick. Il quaterback dei 49ers si era inginocchiato in segno di protesta durante l’inno degli Stati Uniti, che risuona nelle arene prima dell’inizio di ogni incontro, a sostegno dell’oppressione delle minoranze etniche che ancora oggi avviene in America. E se Kaepernick aveva ricevuto il sostegno dell’allora presidente Obama, non si può dire lo stesso del candidato repubblicano, che sarebbe diventato di lì a pochi mesi inquilino della Casa Bianca.
Trump criticò duramente il giocatore per aver mancato di rispetto alla bandiera americana e propose il licenziamento per tutti coloro che non si fossero alzati in piedi all’inno. Dalla fine di quella stagione, Kapernick non ha più ricevuto alcuna offerta da nessuna franchigia e oggi, ormai 32enne, è disoccupato da 4 anni.

«Credi in qualcosa. Anche se significa sacrificare tutto.»
Lo slogan della campagna pubblicitaria di Nike, che ha come protagonista Colin Kaepernick, in occasione del 30° anniversario del claim ‘Just Do It’.

A scatenare la protesta di Kaepernick fu la morte del 26enne Mario Woods per mano delle forze dell’ordine: il giovane si rifiutò di gettare un piccolo coltello a serramanico e gli agenti gli scaricarono addosso oltre 20 colpi di pistola. Quattro anni dopo, il gesto del quaterback dei San Francisco 49ers è diventato il simbolo della protesta che è divampata negli Stati Uniti ed in tutto il mondo al grido di «Black Lives Matter», scatenata dal brutale assassinio di George Floyd per mano dell’agente della Polizia di Minneapolis Derek Chauvin. Milioni di afro-americani, stanchi delle sistematiche violenze ed oppressioni subite, hanno deciso che questa volta era davvero abbastanza e sono scesi a manifestare per le strade.

Il rapporto tra Trump ed il mondo NBA è quindi iniziato con il piede sbagliato, ma è proseguito sicuramente in maniera ancor più burrascosa. Non sono mancate le critiche di due degli allenatori più famosi del mondo cestistico statunitense, Steve Kerr e Gregg Popovich, che hanno duramente criticato in più occasioni l’operato del presidente repubblicano. Voci alle quali si sono aggiunte quelle di Steph Curry, Kevin Durant e LeBron James. Le due stelle dei Golden State Warriors, proprio durante la polemica sulla visita alla Casa Bianca del 2017, avevano dichiarato: «Siamo in disaccordo su tutto quello che ha detto, o non ha detto», facendo riferimento in particolare alle parole ambigue del presidente verso l’estrema destra americana dopo i fatti di Charlottesville. Il numero 23 dei Los Angeles Lakers, allora in forza ai Cleveland Cavaliers, aveva utilizzato parole ancora più pesanti, arrivando a definire Trump uno «straccione».

Il tweet con cui LeBron James ha definito Donald Trump un «bum», uno «straccione».

La mal-sopportazione del presidente nei confronti di LeBron è diventata evidente quando durante un’intervista a Fox Sports Radio ha dichiarato: «Chi preferisco tra Micheal Jordan e LeBron James? MJ, perché era più giocatore. Il suo obbiettivo era vincere partite e titoli. Inoltre, era apolitico e questo piaceva molto alla gente». Parole, quelle di Trump, che si riferiscono agli anni ’90 quando Jordan non concesse il suo sostegno al candidato democratico del North Carolina, l’afro-americano Harvey Gantt. In quell’occasione ad MJ fu attribuita la frase: «Anche i repubblicani comprano le sneakers». Ma da allora è passato parecchio tempo ed oggi “Air Jordan” è in prima linea nella battaglia al razzismo. Come uomo, come imprenditore del marchio che porta il suo nome e come proprietario degli Charlotte Hornets.

Sono dalla parte di coloro che stanno protestando contro il razzismo insensato che c’è nel nostro Paese nei confronti della gente di colore. Ma ora ne abbiamo abbastanza. Io non ho le risposte, ma le nostre voci unite hanno una forza che nessuno può dividere. Dobbiamo ascoltarci l’un l’altro, mostrare compassione ed empatia e mai voltare le spalle alla brutalità insensata. Abbiamo bisogno di dare messaggi di pace contro le ingiustizie.Le nostre voci, tutte insieme, devono mettere pressione ai nostri leader affinché cambino le leggi oppure dobbiamo usare il nostro voto per creare il cambiamento. Ognuno di noi deve essere parte della soluzione e dobbiamo lavorare insieme per garantire giustizia per tutti.

Le parole di Micheal Jordan sul caso Floyd, tramite un tweet sul suo profilo ufficiale.

In tre anni tante cose sono cambiate: i Golden State Warriors non sono più alla guida della NBA, David Stern, lo storico dirigente della NBA, ci ha lasciati nel gennaio del 2020, seguito a brevissima distanza da Kobe Bryant, uno dei più grandi giocatori della storia della pallacanestro che sicuramente sarebbe stato in prima fila nel condannare queste violenze, è scomparso insieme alla figlia in un tragico incidente in elicottero ed una pandemia globale ha colpito e scosso profondamente tutta l’umanità. Quello che non è cambiato, tuttavia, sono i casi di violenza delle forze dell’ordine americane nei confronti dei cittadini di colore. Ed oggi come ieri, resta invariato anche il duro contrasto tra i giocatori della NBA e il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Quando il 25 maggio è stato diffuso il tremendo filmato che mostrava l’uccisione di George Floyd da parte dell’agente Derek Chauvin, la bolla all’interno della quale si sarebbe dovuto disputare il finale di stagione NBA non era ancora stata allestita, ma era già sul punto di esplodere.
Molti giocatori scelsero di esporsi attivamente già allora, partecipando alle marce di protesta pacifica divampate in tutti gli Stati Uniti: Jaylen Brown (Boston Celtics), JR Smith (Los Angeles Lakers), Demar DeRozan (San Antonio Spurs), Giannis Antetokounmpo (Milwaukee Bucks), Steph Curry e Klay Thompson (Golden State Warriors), Damian Lillard (Portland Trail Blazers), solo per citarne alcuni. La National Basket Association ha scelto di combattere questa battaglia insieme alle sue superstar e, tramite il suo presidente Adam Silver, ha condannato le violenze, le ingiustizie e le discriminazioni.

Il razzismo, la brutalità della polizia e le ingiustizie dovute alla discriminazione rimangono parte integrante delle vita di tutti i giorni in America e non possono più essere ignorate. Sono incoraggiato nel vedere che tantissimi membri della famiglia NBA e WNBA – giocatori, allenatori, leggende del passato, proprietari di squadre e dirigenti a tutti i livelli – hanno deciso di parlare per chiedere giustizia, sollecitando proteste pacifiche e lavorando per un cambiamento significativo della società. Adesso continueremo a garantire il nostro contributo insieme ai giocatori e alle squadre. Come organizzazione, siamo chiamati a fare tutto ciò che è in nostro potere e a sfruttare la nostra posizione per chiedere un cambiamento che non si può più rinviare.

Adam Silver
Jaylen Brown alla marcia per George Floyd.
Il giocatore dei Celtics è partito da Boston in macchina ed ha guidato 15 ore per poter partecipare alla manifestazione pacifica ad Atlanta, la sua città natale. – © NBA

Allo stesso modo ha voluto fare Gregg Popovich, capo-allenatore dei San Antonio Spurs da 24 anni e uno dei tecnici più influenti della lega, levando la sua voce. «Da bianco mi vergogno per quanto successo», ha dichiarato appellandosi al lato umano, chiedendo la cessazione di qualsiasi tipo di vessazione nei confronti delle persone di colore. Poi, ancora una volta, ha criticato duramente il presidente Trump.

Se Trump avesse un cervello prenderebbe la parola per dire qualcosa di utile a unire le persone. Ma questo a lui non interessa, tanto meno adesso: è uno squilibrato. […] Deve solo dire queste tre parole (Black Lives Matter), ma non lo farà. Non è capace di farlo perché per lui è più importante non perdere il suo seguito di persone che danno un senso alla sua follia.

Gregg Popovich

LeBron James, che fin dalle prime ore dopo l’omicidio di George Floyd si era schierato a favore di una società più giusta ed equa, ha deciso di scendere in campo per combattere l’unica battaglia che, secondo lui, avrebbe permesso davvero di cambiare le cose: le presidenziali del novembre 2020. Lo ha fatto fondando l’associazione “More than a Vote“, che si pone l’obiettivo di favorire l’accesso al voto alle minoranze. Un problema che ha coinvolto milioni di cittadini fin dal 2016. Infatti, i 50 stati federali americani godono di una certa libertà nella gestione delle leggi elettorali, il che ha permesso il proliferare di ostacoli fisici che disincentivassero l’affluenza alle urne per le fasce più deboli della popolazione. Alcune delle tecniche adottate sono la richiesta di una tassa di iscrizione ai collegi o lo spostamento dei seggi in località non facilmente raggiungibili dai mezzi pubblici. L’associazione ha visto l’adesione di numerose giocatori di spicco, ma anche delle stesse franchigie, che hanno deciso di mettere a disposizione i propri impianti sportivi per permettere ai cittadini di esprimere il proprio voto alle elezioni del nuovo presidente americano.

La stessa NBA, che già aveva preso posizione tramite il suo commissioner, ha ritenuto che andasse fatto di più. Anche e soprattutto a livello di immagine, conscio dell’importanza della vetrina costituita dalla bolla in un momento storico così particolare. Su tutte le magliette delle squadre, sui campi da gioco e addirittura sui pullman di alcune franchigie, sono comparsi slogan a favore del rispetto delle minoranze, dell’uguaglianza e dell’importanza di esprimere il proprio voto.

La maglia indossata da Jayson Tatum dei Boston Celtics durante le partite nella Bolla di Orlando. – © Kevin C. Cox / NBAE / Getty Images

Il 31 luglio 2020, la stagione del basket americano è ufficialmente ripartita, ma le proteste sono continuate: le squadre e gli arbitri si sono inginocchiati mentre nel palazzetto risuonava l’inno statunitense. Il gesto di Colin Kaepernick è ormai diventato il simbolo del movimento Black Lives Matter. E nonostante in NBA esista una regola che obblighi i giocatori a «stare allineati e in piedi durante l’inno», Adam Silver ha fatto sapere che rispetterà qualsiasi tipo di protesta e che nessuna sanzione sarà applicata, dimostrando così – se ancora ce ne fosse bisogno – la sensibilità sul tema della lega più famosa del mondo.

I giocatori dei Los Angeles Lakers e dei Los Angeles Clippers inginocchiati al primo match nella Bolla di Orlando, 30 luglio 2020. © David Dow / NBAE / Getty Images

L’aggressione di un poliziotto del Wisconsin che, il 24 agosto 2020 ha sparato, davanti allo sguardo attonito dei suoi tre figli, sette colpi di pistola alla schiena di Jacob Blake (4 dei quali a segno) è stato l’ago che ha fatto letteralmente scoppiare la Bolla. L’ennesimo caso di accanimento delle forze dell’ordine nei confronti di un cittadino afroamericano è avvenuto a Kenosha, a soli 45 minuti dal Fiserv Forum, casa dai Milwaukee Bucks, che infatti quella sera hanno deciso di non giocare insieme agli Orlando Magic. Lo sciopero si è poi allargato a tutte le altre partite in programma, scelta peraltro condivisa dai vertici della NBA.

La sirena suona sul parquet vuoto. È Gara-5 del primo turno Plyoff tra i Milwaukee Bucks e gli Orlando Magic, che hanno deciso di non giocare.
© AT&T.

La National Basket Player Association si è interrogata sul senso di continuare a giocare, mentre fuori dalla Bolla, ancora una volta, un uomo innocente, vittima di una violenza cieca e spropositata da parte delle forze dell’ordine, si ritrovava ammanettato a un letto di ospedale, in bilico tra la vita e la morte. Convinti però dell’importanza e della portata che un messaggio veicolato tramite i Playoff NBA può avere, hanno deciso di riprendere a fare canestro. Non prima di aver fatto capire ad Adam Silver e ai presidenti delle franchigie come le scritte sulle maglie e sul parquet non bastassero, ma fosse necessario anche un sostegno concreto. Così l’NBA Board of Governors ha dato vita alla prima Fondazione NBA per favorire lo sviluppo economico della Black Community. Le 30 squadre doneranno complessivamente 30 milioni l’anno per 10 anni, per un totale di 300 milioni di dollari.

Dopo la decisione di condividere le motivazioni dello sciopero dei suoi giocatori e impegnarsi concretamente, l’NBA è diventata definitivamente nemica di The Donald, che infatti non ha esitato a commentare.

La NBA è diventata un’organizzazione politica e non penso che sia positivo per il paese. Le persone sono stufe della NBA.


A mettere ulteriormente in difficoltà il presidente Trump, oltre al ricovero dei giorni passati in ospedale per il Coronavirus e ai sondaggi che lo vedevano nettamente sfavorito, c’è stato anche il fatto che LeBron James, uno dei personaggi sportivi più in vista e leader incontrastato della palla a spicchi, che tre anni fa gli rivolgeva quell’aspra critica attraverso un tweet, stava per indossare il quinto anello della sua fantastica carriera cestistica.
Peraltro, se ci è concesso dissentire dalle parole del presidente americano, oseremmo affermare che questi playoff 2020 sono l’emblema di quanto le parole “essere stufi” e “NBA” non possano stare nella stessa frase.

Anthony Davis si presenta con la maglia di Colin Kaepernick a Gara-3 della NBA Finals tra i suoi Los Angeles Lakers ed i Miami Heat. © Getty

Nella notte di tra il 12 e il 13 ottobre i Los Angeles Lakers sono riusciti a battere i mai domi Miami Heat, guidati da un indemoniato Jimmy Butler che ha avuto il merito di mantenere viva una serie finale decisamente intensa e combattuta, conclusasi a gara 6.
Una partita dominata dalla difesa della squadra giallo-viola: alla fine del secondo quarto, il tabellone recitava 64-36. Fin dai primi minuti si ha avuta la netta sensazione che la partita fosse già ampiamente indirizzata a favore dei Lakers.
A dieci anni dall’ultima volta i gialloviola hanno riportato il Larry O’Brien Trophy nella Città degli Angeli. L’eterno LeBron James ha dimostrato ancora una volta perché viene spesso accostato a Micheal Jordan nelle discussioni su chi sia il GOAT, guidando i suoi compagni alla conquista di quello che, in futuro, verrà descritto come il titolo più difficile della storia. I dati dicono che sono state le Finals NBA con meno spettatori degli ultimi decenni, ma allo stesso tempo sono state anche le più impegnate politicamente.

É stato un anno che verrà ricordato per sempre e per diverse ragioni: innanzitutto è stata la prima serie finale NBA senza la sapiente guida di David Stern.
É stata una stagione lunghissima, durata praticamente un anno intero; i Lakers hanno riportato a Los Angeles un titolo che mancava da anni, contribuendo a mantenere vivo il mito giallo viola e di quel meraviglioso giocatore che ai Lakers aveva orbitato per tutta una carriera: Kobe Bryant.
Ma soprattutto è stata la stagione in cui l’NBA ha definitivamente fatto capire al mondo intero quale sia l’idea che i giocatori e tutti gli addetti ai lavori di questa Lega ha nei confronti dello sport e del rapporto che esso debba avere con tutto ciò che avviene fuori dai palazzetti. Un concetto che è perfettamente riassunto dalle parole dell’allenatore dei Los Angeles Clippers, Doc Rivers, il quale ha detto che «Il compito dell’NBA non è risolvere i problemi del mondo. Il compito dell’NBA è essere parte del mondo». Ad ognuno la sua parte di compiti e di responsabilità, anche se la possibilità di essere ascoltati da centinaia di migliaia di persone è stata un’occasione davvero unica per incidere sul cambiamento.

A meno di un mese della vittoria dei losangelini alle Finals NBA, le elezioni presidenziali hanno sancito la sconfitta di Trump, in favore del suo avversario Joe Biden, che dovrebbe insediarsi alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio 2021. Una notizia che dai giocatori NBA è stata accolta con grande entusiasmo, come testimonia il tweet di Draymond Green. Il giocatore dei Golden State Warriors, rivolgendosi direttamente a LeBron James, ha cinguettato: «Adesso possiamo di nuovo andare alla Casa Bianca e celebrare il titolo!». La risposta del 23 gialloviola non si è fatta attendere: «Sì, siamo di ritorno, e porterò con me la mia tequila e anche il vino!». A patto che Biden riesca ad insediarsi, perché in caso contrario, siamo sicuri che i Lakers resteranno a Los Angeles.

Il razzismo in America è come la polvere nell’aria. Sembra invisibile — anche quando ti sta soffocando — fino a quando non lasci che entri il sole. È solo in quel momento che realizzi che è dappertutto. 
Fintanto che continuiamo a far splendere quella luce, avremo la possibilità di pulire ovunque si posi. Ma dobbiamo rimanere vigili, perché è ancora nell’aria.

Kareem Abdul-Jabbar