E’ passato un anno dal 4 agosto 2020, una data destinata a rimanere impressa per sempre nella memoria dei libanesi. Le esplosioni del porto di Beirut, che hanno causato la morte di più di 200 persone, rappresentano il momento più basso nella storia del paese dei cedri. Si stima che circa 300.000 persone abbiano perso la proprio abitazione a causa del disastro, e le ferite nel corpo e nella mente difficilmente potranno rimarginarsi. Sono attese manifestazioni per commemorare il primo anniversario della catastrofe ed è lecito attendersi disordini. Le famiglie delle vittime chiedono verità e giustizia e per mesi la classe politica libanese è stata accusata di ostacolare il normale svolgimento delle investigazioni. Nelle le prossime settimane si dovrebbe finalmente arrivare alla rimozione dell’immunità parlamentare per i politici messi nel mirino dal giudice Tariq Bitar che da febbraio segue le indagini. Nel frattempo, Human Rights Watch ha pubblicato un report che dimostra chiaramente come diversi politici e figure di spicco (tra cui l’allora premier Hassan Diab e il presidente Michel Aoun) fossero consapevoli della presenza del nitrato di ammonio nell’Hangar 12 del porto di Beirut e non abbiano comunque preso i provvedimenti necessari. Esiste più di una perplessità, inoltre, sul fatto che il materiale fosse realmente diretto in Mozambico prima di essere scaricato a Beirut nel 2014.
A un anno di distanza da quel 4 agosto il Libano vive una crisi economica e politica senza precedenti. La lira, il cui valore è stato ancorato con un cambio fisso a quello del dollaro fino all’ottobre 2019, ha ormai perso circa il 90% del proprio valore e ha visto il proprio potere di acquisto crollare vertiginosamente a fronte di un aumento esponenziale del costo della maggior parte dei beni di consumo. Il direttore della Banque du Liban Riad Salameh, che per anni era stato visto come uno dei più brillanti artefici della solidità finanziaria del paese, è oggi accusato di essere uno dei principali responsabili della crisi ed è indagato per riciclaggio e associazione a delinquere in Francia e in Svizzera.
Nell’area metropolitana di Beirut quasi un cittadino su due vive ormai oltre la soglia di povertà. La situazione è irreale: il paese, storicamente soggetto a tagli giornalieri di corrente, è al buio e da diverse settimane, l’elettricità e l’illuminazione vengono prodotte solamente grazie ai costosissimi generatori che si alimentano a miscela, importata e venduta a prezzi di mercato senza alcuna agevolazione. Molte medicine sono introvabili, le farmacie sono state a lungo in sciopero e diversi negozi hanno chiuso.
Le code ai benzinai sono chilometriche, e diversi cittadini libanesi hanno lasciato il lavoro perché il salario percepito non è nemmeno sufficiente a coprire i costi degli spostamenti. Nei mesi passati il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva “minacciato” di far arrivare il petrolio dall’Iran e più recentemente le autorità libanesi hanno concluso un accordo con l’Iraq per la fornitura di carburante in cambio di servizi medici.
Mentre la popolazione è stremata e il paese vive quella che la World Bank ha catalogato come una delle tre peggiori crisi economiche dall’800 a oggi, i politici libanesi puntano i piedi in difesa delle proprie posizioni e da quasi un anno si consuma un triste teatrino di nomine e consultazioni che non ha ancora portato alla formazione di un governo che possa mettere in moto il processo di riforma di cui il Libano ha disperatamente bisogno per accedere agli aiuti del Fondo Monetario Internazionale (di fronte a una comunque necessaria ristrutturazione del debito).
Il presidente francese Macron ha indetto, proprio nella giornata del 4 agosto, una terza conferenza di sostegno per il Libano, organizzata grazie all’appoggio delle Nazioni Unite. La (criticata) scelta di tenere la conferenza proprio nel giorno dell’anniversario delle esplosioni è chiaramente simbolica e Macron, che si è fin da subito speso a sostegno di Beirut e del Libano e che nei mesi scorsi aveva duramente criticato l’attitudine dei politici libanesi, spera che questo possa servire mettere fine alla situazione di stallo che paralizza la ripresa e rende impossibile avviare un programma di aiuti che non sia esclusivamente emergenziale.
Lo scorso 26 luglio il presidente Aoun ha conferito al plurimiliardario di Tripoli e magnate del settore della comunicazione Najib Mikati l’incarico di formare un governo. Mikati, già premier ad interim nel 2005 e poi tra il 2011 e il 2014, ha ricevuto il sostegno del parlamento con 72 voti dei 118 totali, e sia il tandem sciita (Hezbollah e Amal) che la Corrente Futuro guidata da Saad Hariri e il Partito socialista progressista guidato dai drusi di Walid Joumblatt hanno garantito il proprio sostegno.
I due principali partiti cristiani (uno dei quali, Corrente patriottica libera, è guidato da Gebran Bassil, genero del presidente Aoun) hanno invece preferito astenersi e la situazione andrà monitorata con attenzione. Mikati è considerato una figura più incline al compromesso rispetto a Saad Hariri, che per nove mesi ha portato avanti un negoziato per la nomina dei ministri che si è definitivamente arenato nelle scorse settimane per “insanabili divergenze” con Michel Aoun, e nei primi giorni del mandato si è espresso con toni cautamente ottimista parlando anche di garanzie internazionali.
Il Libano ha disperatamente bisogno di un governo per negoziare la ripresa economica con la comunità internazionale e per preparare le elezioni parlamentari che si dovranno tenere nel maggio del 2022 per rinnovare la Camera. Il paese ha dichiarato default il 9 marzo del 2020 e da allora, complici la pandemia e la catastrofe di un anno fa, la situazione economica e sociale è ulteriormente peggiorata, ed è probabilmente inutile aspettarsi che la formazione di un nuovo governo possa da sola attutire la caduta del Libano. Un altro fallimento, però, causerebbe un ulteriore contraccolpo economico per il paese e per una popolazione che non ha più tempo da perdere.
Le elezioni del prossimo anno saranno un importante banco di prova per i libanesi. Il sistema confessionale che regge il paese è stato attaccato da più lati, ma la legge elettorale e la situazione di crisi estrema in cui si trova il Libano rendono difficile attendersi un vero stravolgimento nella composizione della Camera, alla luce del “paracadute” che il legame settario garantisce ad una popolazione in grande difficoltà. L’arrivo della pandemia e l’inasprimento della crisi economica hanno paradossalmente reso meno vulnerabile la posizioni dei classici gruppi di potere che invece erano stati fortemente messi in discussione con l’avvio dell’imponente movimento di protesta della thawra nell’ottobre del 2019. Il radicamento sul territorio di vari gruppi e associazioni , gli scambi culturali e le esperienze di auto-organizzazione sono però una realtà consolidata ed è scontato aspettarsi l’ingresso sulla scena politica di figure emerse dalla sollevazione che aveva portato alle dimissioni di Saad Hariri a fine 2019. Un primo importante segnale di rinnovamento si è avuto con la schiacciante vittoria dei candidati indipendenti alle elezioni per il Sindacato di architetti e ingegneri.
Nella sua storia il Libano ha attraversato diversi momenti di crisi. Tra il 1975 e il 1990 è stato teatro di una guerra civile con l’inserimento di attori esterni. Dopo il 1990 è stato occupato militarmente per 15 anni dall’esercito siriano, e ancora oggi il supporto alla Siria divide a metà lo spettro politico libanese. Le guerre con Israele e la crisi siriana scoppiata nel 2011, poi, avevano di nuovo messo a dura prova il paese, e nell’ultimo anno e mezzo la crisi pandemica (con ancora più di 1000 contagi al giorno e una campagna vaccinale che prosegue a rilento) e il completo deterioramento dell’economia stanno infliggendo colpi durissimi a una popolazione che è nota per la sua resilienza ma che negli ultimi anni guarda sempre di più alla fuga all’estero come unica via d’uscita.
Sembra ormai assodato che quello di un anno fa fu un incidente, frutto della corruzione e del malgoverno di generazioni di politici libanesi. I danni causati dalle esplosioni superano, per la città di Beirut, quelli causati dalla guerra, ma a distanza di 12 mesi i leader libanesi annaspano ancora nei calcoli politici e nei giochi di potere. Un anno fa, quando Macron fu tra i primi a visitare il porto di Beirut, si era parlato di “capitalismo dei disastri” e dei rischi creati da un’ulteriore ingerenza straniera. Con ogni evidenza, però, l’intervento e il sostegno della comunità internazionale sono tasselli vitali per tenere il Libano lontano dal caos e dallo scontro settario che ciclicamente minacciano di esplodere in un paese che non è mai riuscito a chiudere i conti con il passato.