Conoscete la serie Electric Dreams? Con buona probabilità, no. Le dieci puntate di questa serie antologica del 2017 non hanno avuto una gran fortuna. Forse però conoscete lo scrittore i cui racconti l’hanno ispirata: Philip K. Dick. Minority Report, The Man in the High Castle, Total Recall, sono tutti usciti dalla sua penna. E il titolo “electric dreams” si riferisce a un altro romanzo, uno di cui forse ricorderete la versione cinematografica: Blade Runner.
Philip K. Dick è stato un gigante della letteratura fantascientifica. Gran parte della narrativa e della cinematografia di genere successiva alle sue opere le prende a modello o a ispirazione. Eppure, la trasposizione diretta dei sui racconti è stata un flop. Perché? È il rischio che corrono i classici quando passano dalla carta alla pellicola: passare per banali, noiosi. Perché i loro eredi, nel frattempo, gli hanno rovinato la piazza e adesso ci sembra visto e rivisto anche quel che una volta era totalmente inedito. Nel caso particolare di Electric Dreams, è arrivato dopo Black Mirror. Il paragone è stato immediato, evidente e impietoso.
Lo stesso è successo a Brave New World. Il mondo nuovo, romanzo distopico del 1932 di Aldous Huxley, viene spesso paragonato a 1984 di Orwell in quanto immagina un futuro in cui ogni aspetto della società è sotto il ferreo controllo di un’autorità superiore. Ciò che lo rende più attuale e spaventoso di 1984, però, è che nel Nuovo Mondo non c’è un dittatore tirannico. Il controllo opprimente viene dalla società nel suo complesso. Una società classista basata sulle apparenze, sul consumismo, sulla soddisfazione immediata degli impulsi che garantisce felicità per tutti. Vi ricorda qualcosa? Allora come mai, quando è uscita la scorsa estate, la serie tratta da Brave New World è stata un flop, snobbata dalla critica?
Come per Electric Dreams, è scattata la trappola del “già visto”. I nostri schermi ci offrono una gran quantità di futuri distopici e Brave New World, semplicemente, non aveva quel certo non so che in più. Anche se molti di quei racconti distopici hanno un gran debito con l’opera di Huxley, o forse proprio per questo motivo.
Ma cos’è che fa “funzionare” un film o una serie di fantascienza, se lo spunto è datato? È forse il suo aspetto complessivo, le scenografie, l’originalità della messa in scena, la fotografia? O forse sono i temi e i conflitti affrontati dai personaggi, a far scattare un senso di riconoscimento e di empatia negli spettatori anche quando si svolgono in contesti remoti e fantastici?
Il recente successo di Dune, diretto da Denis Villeneuve, è dovuto a una mescolanza di questi fattori. Il libro di Frank Herbert da cui è tratto è un pilastro della fantascienza, certo, e ha ispirato Star Wars, Star Trek e innumerevoli altre opere del genere sci-fi. Ma bisogna ammetterlo: è uno strano romanzo, con tempi narrativi che ne farebbero l’incubo di qualsiasi sceneggiatore. Per questo è stato a lungo considerato impossibile da trasporre sullo schermo, anche se non sono mancati i tentativi, illustri quanto fallimentari, di David Lynch e Alejandro Jodorowsky.
Eppure adesso, nella nuova versione di Villeneuve, ha funzionato. Perché il film mette a fuoco l’attualità dei temi seminati dal romanzo. C’è l’oppressione di un popolo indigeno marginalizzato in cerca di rivalsa. E c’è la confusione di un giovane su cui ricadono grandissime aspettative e responsabilità, insieme al peso degli orrori commessi dalla generazione precedente in nome della ricchezza a tutti i costi. Il nuovo Dune non punta tutto sulle meraviglie tecnologiche di un futuro lontano: ha qualcosa da dire. E lo dice senza essere pedante come Brave New World, né sbiadito come Electric Dreams.
Il 2021 ci ha appena regalato un altro adattamento di un mostro sacro della fantascienza: la Saga della Fondazione di Isaac Asimov. Anch’essa considerata a lungo impossibile da trasporre sullo schermo e, come Dune, fonte di ispirazione per chiunque scriva di pianeti remoti, intelligenze artificiali e destino dell’umanità. Figlia del suo tempo, nella trilogia della Fondazione abbondano centrali nucleari e personaggi – quasi tutti uomini – che fumano banali sigarette in astronavi che viene più facile immaginare come loft anni ’70 che come prodigi di ingegneria interstellare.
La trappola del “già visto” è più vicina che mai. Finora il creatore David Goyer è riuscito a evitare di caderci dentro con una semplice ricetta: non essere troppo fedele al materiale originale. Trasformare personaggi maschili in femminili. Giocare con le linee temporali. Confondere le acque in un modo che, però, ci porta a chiederci: Foundation ha qualcosa da dire, come lo ha Dune? O è solo una reliquia del passato, che sarebbe stato meglio lasciare tra le pagine scritte da Asimov?
C’è una bella differenza tra il mistero e la confusione fine a se stessa. Nei mondi immaginari della fantascienza, hanno un gran peso l’estetica e il world-building. Cioè l’arte di costruire mondi fittizi, affascinanti perché remoti ed estranei. Ma al tempo stesso, che contengano un elemento di plausibilità, il pensiero che chissà, in un futuro magari non troppo lontano, tutto ciò possa avverarsi. Dopotutto, uno dei motivi per cui amiamo tanto la fantascienza non è la sua capacità di rivelarsi profetica? Però, se il conflitto è troppo lontano dal nostro sentire, tutto questo non basta a far sì che una storia funzioni.
Abbiamo bisogno di empatizzare con gli eroi, anche quando vivono nel trentesimo secolo su un pianeta alieno. E quando questo succede, quando riusciamo a rivederci negli abitanti di una galassia lontana lontana, è la dimostrazione che i veri classici, le storie che superano la prova del tempo, sono quelli con temi universali. La serie Foundation, appena iniziata, sarà uno di questi classici? O si rivelerà l’ennesimo ritorno alle origini di un genere che è ormai andato avanti senza di lei?