La digitalizzazione ed i nuovi media stanno rivoluzionando il mondo della comunicazione, ormai da qualche anno. L’identità del brand sta assumendo sempre maggior importanza ed il calcio sta cercando di adeguarsi velocemente, consapevole dell’importanza che la comunicazione ha nel Terzo Millennio.
“New Football Media” è lo speciale di Olympia che tocca diverse sfaccettature di questa tematica ormai sempre più variegata, e che pone continuamente nuovi interrogativi e nuove possibilità di espansione commerciale.
Per oltre un secolo dalla sua nascita il calcio moderno non ha avuto bisogno di molto altro se non di sé stesso. Dal 1857, anno di fondazione dello Sheffield Football Club, fino al 1972, quando il primo sponsor comparve sulla maglia di una squadra di calcio.
Fu la Jägermeister che, dopo una feroce benché fantasiosa lotta legale con la Bundesliga, riuscì ad apporre il proprio logo sulle casacche gialle dell’Eintracht Braunschweig, aprendo le porte del mondo del calcio al marketing.
Da allora sono passati quasi cinquant’anni e con impressionante rapidità i club hanno imparato a muoversi in modo trasversale sui mercati, diversificando gli investimenti e assumendo gradualmente i connotati di vere e proprio aziende.
L’importanza del bilancio nel calcio moderno
Attraverso molti cambiamenti, non ultima la sentenza Bosman del 1995, il calcio ha cercato di stare al passo con la società ed adeguarsi ad essa, arrivando a quel punto nel quale non si riesce più a definire chiaramente chi sta influenzando chi.
Il bilancio è diventato un fattore predominante nel calcio moderno, e le sole prestazioni sul campo non bastano più a tenere in piedi un sistema stratificato e complesso, che forse da tempo ha perso parte di quel fascino che ha fatto innamorare generazioni di giovani negli ultimi decenni.
E così, insieme agli sponsor, sono arrivati i diritti tv e gli spazi pubblicitari, gli stadi di proprietà, il merchandising e le quotazioni in borsa: il tutto anche per sostenere il sempre crescente quantitativo di denaro che gira tra gli addetti ai lavori (calciatori, allenatori, agenti o dirigenti).
Di fianco ai nomi storici del calcio mondiale, sono arrivate nuove squadre nate da poco, grazie ad imprenditori che hanno strutturato a tavolino ogni minimo dettaglio del nuovo club, con minuziosi business plan che definiscono ogni aspetto dell’immagine e dei piani finanziari della nuova azienda.
Il calcio invade il mercato
Alla base di tutto, però, restano le persone, gli appassionati, anche se non sono più sufficienti. I numeri sono cresciuti, c’è bisogno di attrarre nuovo pubblico e le società calcistiche, cercando di leggere i tempi, hanno diversificato gli investimenti nei modi più disparati. Dalle criptovalute ai videogiochi, passando per brand di abbigliamento e testimonial di spicco.
La squadra di calcio oggi è solo una parte dell’immagine della società. Accordi con sponsor tecnici, iniziative sociali, immagine pubblica di dirigenti e giocatori, contenuti multimediali esclusivi e sempre di più alto livello: tutto questo concorre a creare nel consumatore una determinata percezione di una società calcistica, quindi di un marchio.
I top club mondiali sono dei brand e di fatto seguono le regole del mercato. Collaborano con altre aziende per poter operare su mercati differenti ed effettuano ricerche sui consumatori, provando a captarne le esigenze e i gusti per poi rielaborarli sotto forma di prodotti commerciali, come le divise.
L’importanza della divisa
Le maglie dei club sono uscite dagli stadi per arrivare nelle strade di tutto il mondo, diventando prodotto commerciale e di tendenza. Non si tratta più solo di sentimenti di appartenenza o di condivisione con ciò che una squadra rappresenta (come nel caso del St. Pauli), ma di stile.
I nuovi completi vengono attesi ogni anno come collezioni di Prada e i grandi marchi di abbigliamento sportivo usano le divise come fossero tele bianche sulle quali riportare (non sempre) i colori sociali in forme riviste che seguono mode e gusti dei consumatori, facendo prudere i portafogli di appassionati e non.
Anche le edizioni commemorative, o un’edizione particolare per un evento specifico, che una volta era un avvenimento sporadico, vengono oggi usate regolarmente dalle società e dai marchi di abbigliamento sportivo per aumentare le vendite e attrarre sempre maggiori clienti.
In realtà negli ultimi anni molti dei club hanno effettuato delle vere e proprie operazioni di rebranding, modificando il brand per riposizionarlo sul mercato e renderlo più attraente.
Il cambiamento passa anche dal logo
In Italia il caso iconico è quello della Juventus, forse la prima tra i grandi club a muoversi verso un design più moderno ed essenziale con il nuovo logo presentato nel 2017. Un marchio versatile, usato anche nel 2019 per il lancio di Icon Collection, la prima collezione streetwear bianconera.
Un caso più recente è quello dell’Inter, ma altri grandi club negli anni hanno ritoccato o stravolto i loro loghi per provare a dare una rinfrescata alla propria immagine. Dal Nantes al Cagliari, passando per Leeds, Machester City o Napoli.
Neanche le Federazioni sono immuni dalla perdita di fascino e di appeal. Perfino la Premier League, uno dei campionati di calcio più seguiti e ricchi del mondo, nel 2014 ha sentito la necessità di qualche ritocco ringiovanente, presentando il nuovo logo della competizione.
I loghi però non sono tutto, e di sicuro sono solo una minima parte di ciò che crea affiatamento tra il tifoso – cioè il cliente – e il club. La percezione della società, dei suoi valori e dei suoi obbiettivi è una parte molto importante per il successo (o meno) del club.
È necessario riuscire a coinvolgere quante più persone possibili per poi fidelizzarle, facendole sentire parte di qualcosa di più di una semplice squadra di calcio. È condivisione di valori che, se un tempo potevano far leva su fattori di appartenenza come quello geografico o ideologico, oggi si spingono verso interpretazioni più ampie e di più facile condivisione.
La forza dello slogan
E così l’Inter, o meglio l’Inter Milan, gioca con il “nuovo” nome e con il senso di identità nel nuovo payoff: I M, ovvero Io Sono. Anche se più che di che payoff si dovrebbe parlare di slogan, un elemento di riconoscimento nel mondo per i club. Come il “Més que un club” del Barcellona, il “Fino alla fine” della Juventus, il “Mia san mia” del Bayern Monaco o il “You’ll Never Walk Alone” del Liverpool.
Il pubblico di riferimento non è solo quello dei tifosi regolari ma anche, e soprattutto, quello degli occasionali. Quell’insieme di persone che non va allo stadio, ma che compra la divisa, completa di toppe, già a settembre per poi indossarla una volta al mese, quando si ricorda della partita.
Bisogna far identificare le persone con il brand, per far sì che comprino anche le cover per il telefono e l’intimo griffato, e che si fidino della qualità dello sponsor a bordo campo o del prodotto sponsorizzato dal campione nelle sue stories sui social.
Il marchio, lo slogan o la divisa vanno usati non solo come segno identificativo, ma come oggetto culturale, sempre più slegato dal calcio giocato, sempre più simile a un prodotto industriale.
Che possa piacere o no, tutto questo è diventato necessario al fine di poter alimentare un sistema che ormai ha vita propria, che genera passione e introiti in tutto il pianeta e che non può più provare a ridimensionarsi, ma può solo a trovare un modo per non implodere.
Oppure perché, per usare le parole dello scrittore Simon Kuper in un’intervista al quotidiano argentino Olé, «il calcio è un gioco, ma anche un fenomeno sociale. Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco».