Viviamo in un’epoca in cui, anche grazie alla globalizzazione, la criminalità organizzata transnazionale ha potuto espandersi a macchia d’olio, assurgendo al ruolo di vera e propria attrice primaria dello scacchiere internazionale. Ricchezza e potere sono cresciuti a dismisura nel giro pochi anni e, ad oggi, sono pochi i paesi che possono definirsi totalmente liberi dalla influenza mafiosa.
Ma come si è arrivati ad una situazione simile? Come hanno fatto le mafie ad appropriarsi del nostro mondo? La risposta a queste domande è insita nella natura stessa delle elites criminali mafiose. Al loro interno è infatti possibile individuare determinate caratteristiche che, rimaste immutate nel tempo, hanno permesso loro di mantenere e ricoprire alla perfezione il ruolo di re del crimine della nostra epoca. Di questo re e dei suoi molteplici volti parleremo nel corso della rubrica che oggi andiamo ad inaugurare.
L’obiettivo alla base di questa rubrica, prendendo spunto dalle parole dell’ex questore della polizia francese Jean-François Gayraud, è quello di dimostrare che la complessità che avvolge la tematica della criminalità organizzata transnazionale di tipo mafioso si può e si deve analizzare, scomporre e spiegare.
Non siamo di fronte a una chimera invincibile e immortale, per quanto a volte così possa sembrare. Il fenomeno mafioso, come ha provato spiegarci a suo tempo Giovanni Falcone, «non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine». Tuttavia, affinché questa fine possa sopraggiungere è necessario indagare in profondità la natura del fenomeno in questione. Solo attraverso lo studio delle sue peculiari sfaccettature è infatti possibile individuarne i punti di forza, così come quelli deboli, e comprendere le modalità con cui questo mostro ha potuto affondare le proprie radici tanto in profondità nel terreno del nostro mondo, reso fertile dalla globalizzazione.
In tempi recenti, vedendo appunto quanto il crimine organizzato si fosse espanso a livello mondiale, alcuni studiosi hanno ritenuto di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo, che non trovasse riscontro alcuno nelle forme passate di criminalità. Ecco, non dobbiamo assolutamente cadere in questo tranello. Le élite criminali transnazionali non sono una neonata creatura mai vista in precedenza, ma l’evoluzione della tradizionale criminalità organizzata uscita trasformata dall’incontro con le matrici della globalizzazione.
Queste le parole della professoressa Francesca Longo, docente dell’Università di Catania, nel suo scritto ‘Discoursing organized crime. Towards a two-level analysis‘. Una criminalità organizzata 2.0 quindi, ma pur sempre criminalità organizzata. Un fenomeno già analizzato e combattuto, e in qualche occasione addirittura sconfitto. Così intesa, questa versione aggiornata delle mafie internazionali non può spaventarci, a patto che ci sforziamo di riconoscerne i tratti distintivi.
Ci troviamo pertanto a fare i conti con un male che già conosciamo. Nonostante l’abbattimento delle frontiere e l’apertura dei mercati a livello mondiali gli abbiano permesso di convertire le proprie attività da nazionali a globali, esso non muta nei suoi principi fondanti. Anzi, ne trae nuova linfa vitale.
Il nuovo, vecchio re del crimine rimane così il medesimo del secolo scorso. Certo, oggi può indossare abiti nuovi e sfarzosi, vantare un conto in banca più ricco e amicizie internazionali, ma perpetra gli aspetti caratterizzanti di sempre. I suoi diversi volti, una volta liberati delle maschere dietro cui le organizzazioni criminali cercano di celarsi, ci ricordano che siamo dinnanzi al solito, vecchio, cancro criminale: un’entità maligna estremamente radicata sul territorio, che intrattiene quotidianamente rapporti con l’attore statale per soddisfare la propria inesauribile fame di guadagno, ed in grado di modellare la propria forma al contesto in cui agisce.
Quella che ci troviamo a fronteggiare oggi altro non è altro che la criminalità (ri)organizzata di ieri, adattatasi nel migliore dei modi al mondo partorito dalla fine della Guerra Fredda. Proprio la camaleontica capacità di adattamento costituisce una delle molteplici facce che fanno di essa un’entità che, in base all’occasione e al contesto geopolitico, si presenta come animale glocale, parassita statale, capitalista selvaggio e, appunto, camaleonte adattivo.